IN DIRETTA DALLA CAROVANA DELL’ACQUA – DIARIO DI VIAGGIO

E’ partita la Carovana dell?acqua in Palestina, per il diritto all’accesso all’acqua. Stiamo seguendo in diretta la Carovana grazie ad alcuni estratti del “diario di viaggio” inviato dalla giornalista di “Left” Paola Mirenda che, direttamente dai Territori, ci tiene aggiornati sulla situazione.

16 settembre

E’ l’ultimo giorno in Palestina per la Carovana, e la bandiera dei comitati italiani per il “sì” al referendum sull’acqua pubblica è saldamente nelle mani di Majeda Alawneh, la rappresentante della Palestianian Water Authority che ci ha accompagnato in questa settimana.

I partecipanti al viaggio organizzato dal Comitato italiano per un Contratto mondiale dell’acqua gliela hanno consegnata prima di salutarla, in segno di ottimismo e di buon augurio per il futuro. “Vale molto, perchè è l’unica vittoria che abbiamo avuto negli ultimi 25 anni”, le spiega serio Paolo Rizzi, persona storica dei Comitati dell’Acqua. Sono le ultime ore che si passano qui, già si concordano i prossimi appuntamenti, si stilano i primi parziali bilanci, ma soprattutto si continua a viaggiare per questa regione massacrata dall’occupazione israeliana.

Da nord a sud i pochi chilometri della Cisgiordania – una terra che ancora non ha il diritto di chiamarsi Stato – la Carovana se li è fatti tutti, al contrario delle centinaia di migliaia di palestinesi che non possono a volte muoversi nemmeno dai propri villaggi. Come succede ai beduini, un tempo pastori nomadi che si spostavamo laddove la stagione rendeva la terra fertile, e ora diventati stanziali obtorto collo. Nel governatorato di Hebron le autorità  israeliane hanno concesso dei permessi di costruzione (stabiliti da un piano regolatore) per rendere stabili le precarie abitazioni che normalmente servivano da rifugio, con l’obbligo però di non portare gli animali al pascolo fuori dai confini così delineati.

Ma l’erba non cresce agli ordini di Tsahal nemmeno quando piove, figuriamoci con la siccità. Così le capre arrancano stanche e smagrite lungo le aride colline di sassi: stagione secca, scarse precipitazioni, e soprattutto pozzi distrutti. L’esercito israeliano ne ha cancellati 13 in quest’area, antiche cisterne di raccolta di acqua piovana scavate nella roccia, letteralmente strappate a questo terreno di pietre e ardesia. Sono caverne sotterranee larghe tre o quattro metri e altrettanto profonde, quasi invisibili alla superficie, che nella stagione invernale immagazzinano l’acqua per i pastori e i loro animali.

Alcune sono state costruite ai primi anni del secolo scorso, ben prima delle frontiere del ’48, e hanno resistito a tutto. Ma quando arrivano i bulldozer dell’esercito israeliano non c’è più nulla da fare, le ruspe riempiono le cavità di terra, rendendole inutilizzabili. All’interno c’è ora solo una poltiglia di fango in cui quasi si affonda, eppure i palestinesi si sono messi con pazienza a cercare di toglierla, poco a poco, per tornare a vivere. Nel villaggio di Umm al Kheer a luglio, invece, l’esercito israeliano ha distrutto le case di lamiera e teli, mentre a pochi passi di distanza i coloni di Karmel guardavano attenti.

La loro speranza è di riuscire a cacciare i palestinesi in breve tempo, così alle incursioni dell’esercito aggiungono le proprie: sassi lanciati dalla collina, spari verso le tende, botte agli animali. Non c’è quasi alcun villaggio palestinese che non abbia la sua colonia ebraica posta di fronte, quasi sempre più in alto per meglio dominare e controllare. Si arriva al paradosso di stabilire una colonia al limitare dei terreni coltivati, e poi farla considerare “buffer zone”, impedendo così il lavoro agricolo. E se la terra non la coltivi, la legge imposta dalle autorità di occupazione prevede la confisca dopo un po’ di tempo. Vessazioni quotidiane, a cui i palestinesi hanno fatto il callo per tirare avanti.

A Susiya una ragazza mostra con timidezza i segni del fuoco nella sua casa, una modesta abitazione fatta di muretto a secco e teli di plastica. Le pietre sono diventate nere, la copertura è accartocciata per le fiamme che l’hanno avvolta, resti di suppellettili e cibo sono sparsi sul pavimento. E’ successo appena una settimana fa, ma non è la prima volta che il villaggio viene attaccato dagli occupanti della colonia dal nome omonimo. Servirebbero case più sicure, ma costruire non si può perchè le autorità israeliane lo impediscono.

Come impediscono di avere l’acqua, prendendo possesso delle fonti e delle sorgenti, o di avere strade, mettendo massi sulla carreggiata per isolare le comunità l’una dall’altra. Non serve chiedergli perchè lo fanno: “Questa per loro non è la nostra terra. Semplicemente dicono jalla, go, andate via. Inutile parlare di diritti. Ti rispondono che tu diritti non ne hai”.

Leggi della Carovana dell’acqua in Palestina

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