Giornata mondiale delle lotte contadine: di land grabbing si muore!

La Giornata Mondiale della Lotta Contadina del 17 aprile, istituita da La Via Campesina in memoria della strage del 1996 quando 19 contadini brasiliani del Movimento Brasiliano Sem Terra  furono assassinati dalla polizia, è oggi una data riconosciuta e importante per la sua  grande portata simbolica. E per non dimenticare le lotte condotte dai contadini in tutto il mondo, spesso pagate con la vita. Tra le forme più cruente delle oppressioni nei confronti di tanti piccoli agricoltori e comunità rurali, c’è senz’altro il land grabbing o “accaparramento della terra”, fenomeno in crescita in tutto il mondo.

Il land grabbing così come lo conosciamo e definiamo oggi ha avuto inizio con la crisi alimentare del 2007-08, quando a seguito della crisi finanziaria globale, gli investitori decisero di puntare su un bene di cui nessuno può fare a meno: il cibo. Fu così che il prezzo di generi primari come riso, grano e mais schizzò improvvisamente alle stelle, fattore che poco dopo sarà anche tra le cause scatenanti dello scoppio delle Primavere Arabe. Imprenditori dell’agrobusiness, multinazionali, Stati con grandi possibilità finanziarie ma incapaci di produrre il cibo necessario, hanno così dato inizio a una vera e propria corsa per aggiudicarsi nei paesi più poveri del mondo vasti appezzamenti di terra, da sfruttare secondo il sistema della monocoltura per la produzione di alimenti destinati all’esportazione verso i Paesi più ricchi.

In questo modo, potendo contare su una manodopera a bassissimo costo, e sull’indifferenza o addirittura la complicità di governi deboli e corrotti, questi soggetti si garantiscono enormi profitti impossessandosi delle risorse naturali altrui e privando intere comunità delle loro terre, condannando i piccoli contadini alla rovina. Il land grabbing trova inoltre l’appoggio delle più grandi organizzazioni internazionali, senza le quali non si sarebbe oggi imposto su così larga scala. BM, FMI, FAO, IFAD, UE sono alcuni degli attori che spingono i governi del Sud del mondo ad aprirsi al libero mercato e alle privatizzazioni dei beni comuni, a creare condizioni favorevoli a investitori stranieri attraverso concessioni e sgravi fiscali.

I soggetti che speculano grazie al land grabbing hanno carta bianca sulle terre di cui s’impossessano, che spesso vengono destinate alla monocoltura di jetropha o palma da olio, per poi rivendere i prodotti alimentari nei mercati più ricchi. Le conseguenze sono drammatiche per quelle popolazioni che, grazie alla terra, da sempre hanno vissuto su questi territori: persa la biodiversità, limitato o negato il loro diritto di accesso alla terra e all’acqua, spesso intere comunità ridotte in povertà sono costrette a migrare.

O ancor peggio, singoli individui portati alla miseria e alla disperazione, non di rado decidono di andare ad alimentare le fila della criminalità organizzata o del jihadismo. Così metteva in guardia nel novembre 2015 Massimo Ranieri, collaboratore COSPE, all’indomani dell’attentato all’hotel Radison Blu di Bamako, capitale del Mali dove, secondo l’organizzazione Grain, il fenomeno del land grabbing si traduce in 800 mila ettari di terreni fertili dati in affitto.

Proprio il Mali, oltre al Niger e al Senegal, costituisce uno dei paesi dove COSPE è presente con il progetto “Terra e pace”, con l’obiettivo di favorire l’accesso alla terra e l’occupazione di piccoli produttori che cercano di riconvertire le terre grazie all’agroecologia.

In Angola, dopo 30 anni di guerra civile, l’economia ha timidamente cominciato a riprendersi puntando sulla privatizzazione e lo sfruttamento delle risorse collettive. Nonostante la “Lei de Terras”, una legge approvata nel 2004 che assegnerebbe le terre a chi le lavora, grazie all’espediente delle concessioni lo Stato assegna vasti appezzamenti a grandi aziende private, espropriandole alle comunità rurali. Insieme ai partner locali, COSPE ha deciso di opporsi all’espropriazione di queste terre per arginare il processo d’impoverimento delle comunità agricole angolane, realizzando un’opera di censimento, mappatura e delimitazione delle foreste comunitarie.

In Swaziland invece, COSPE ha deciso di schierarsi contro un sistema economico che punta sulle grandi aziende alimentari private, rafforzando invece le organizzazioni contadine per riportare nelle loro mani la produzione di cibo.  È infatti importante lavorare per preservare la biodiversità, le campagne e le tradizioni della vita contadina, il suo sapere e il suo rapporto con la terra, e contrastare il dilagare delle grandi piantagioni a monocoltura che nella terra vedono solo un’opportunità di sfruttamento e arricchimento.

Posizione che COSPE ha ribadito anche nel giugno 2015, aderendo alla campagna internazionale contro la New Alliance for Food Security, la politica di ricatto del G8 che prevedeva la concessione di aiuti ai paesi africani in cambio della loro adozione di norme più favorevoli per le grandi imprese agro-alimentari sulla terra, i semi e sugli accordi commerciali.

La terra è una risorsa collettiva, un bene comune che appartiene al popolo che la vive e la lavora, non può essere mercificata e svenduta, trasformata in un prodotto finanziario e piegata alle sterili logiche di mercato il cui solo interesse è il profitto, perché la terra è madre, e come ogni risorsa naturale è fonte di vita per l’intera umanità.