La ricostruzione di Gaza un anno dopo. A che punto siamo.

A poco più di un anno dall’attacco israeliano alla Striscia di Gaza denominato “Margine protettivo”, si fanno i conti e  bilanci. Oltre a quelli delle vittime appurate (2132 secondo fonti Onu), dei feriti ( 11000)e delle abitazioni distrutte, circa 12400 sempre secondo le stessi fonti, si iniziano a fare anche i bilanci della ricostruzione. “  A un anno di distanza nella Striscia non c’è traccia dei soldi promessi per la ricostruzione – racconta il nostro cooperante in Palestina Mario Paolini – dei circa 6 miliardi stanziati  dagli accordi del Cairo nell’agosto dello scorso anno solo il 26,8% (945 milioni di dollari) sono stati erogati ma solo l’1% davvero utilizzato per la ricostruzione. Di questo passo si calcola che per tornare ad una situazione vivibile occorreranno 100 anni!”. Una situazione inaccettabile denunciata anche da un documento prodotto nell’aprile di quest’anno dall’associazione Aida che riunisce le 40 ong che lavorano in Palestina, tra cui COSPE che a Gaza in questo momento lavora nella ricostruzione dell’ospedale europeo, danneggiato dall’ultimo conflitto ma sofferente per continue carenze nella manutenzione. 

 Il documento (in allegato nella sua versione italiana) intitolato “Tracciare una nuova rotta” chiama direttamente in causa i donatori dell’accordo del Cairo e la comunità internazionale tutta: “il documento – continua Paolini – chiede che la comunità internazionale esciti pressione perché  Israele si prenda le proprie responsabilità come forza occupante e garantisca come previsto dagli accordi internazionali i beni e i servizi primari alla popolazione occupata. E Gaza è riconosciuta come tale al pari della Cisgiordania anche se non ci sono colonie.  Che garantisca inoltre l’accesso dei materiali per la ricostruzione, che ancora tardano ad arrivare. Inoltre si chiede che i donatori onorino gli impegni presi e stanzino tutta la cifra prevista”.   Queste le condizioni necessarie perché Gaza torni a vivere : “ Il tasso di disoccupazione a Gaza è del 45% (63% tra i giovani) e  l’ 80% della popolazione vive grazie all’ assistenza umanitaria e alimentare. Questo anche perché a popolazione continua a non aver accesso alla fascia lungo il confine che è quelal più fertile, presidiato dai militari israeliani.  I pescatori invece sono continuamente presi di mira dalla marina israeliana: ci sono spesso feriti, arresti e sequestri di barche.  Le acque territoriali di Gaza  secondo accordo di Oslo sono di 20 miglia nautiche invece i pescatori  non possono uscire per più di 3. Insomma la situazione è tuttora molto pesante  e in questo momento  sono le ong a provvedere ai bisogni della popolazione civile invece che la forza occupante, appunto.  L’unica soluzione vera sarebbe la fine dell’embargo sulla Striscia di Gaza”.  Aida ha difatti lanciato una campagna che avrà le sue attività cruciali durante i prossimi mesi dal titolo #opengaza La campagna chiede  la libera circolazione delle persone e delle merci e che si riconoscano  le violazioni dei diritti umani di Israele,sempre come riconosciuto nel documento Onu.  Un altro effetto collaterale della “guerra di Gaza”,  uno di cui si parla molto poco, è stato lo stallo del percorso verso un governo di unità nazionale tra Hamas e Al Fatah.  “Le trattative – conferma Paolini – erano a uno stadio molto avanzato lo scorso luglio, quando fu lanciata l’operazione “Margine protettivo”. La mancanza di un ‘unità nazionale fa comodo a molti. In questo momento il governo è attualmente dimissionario e ci sono molti conflitti interni”. 

 Tracciare una nuova rotta

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