LE RESPONSABILITA’ DELLA COMUNITA’ INTERNAZIONALE NEL CONFLITTO

Riceviamo e pubblichiamo un contributo con le riflessioni di Sergio Bassoli, del Dipartimento Politiche Globali CGIL, che è stato portavoce della Piattaforma ONG italiane per il Medio Oriente e Mediterraneo, dimostrando un forte impegno, sia nel passato che nel presente, per la pace e il dialogo tra palestinesi e israeliani.
Qui di seguito il contributo.

Un nuovo conflitto armato tra palestinesi e Israele: la comunità internazionale assuma le proprie responsabilità.

Ogni donna, ogni uomo, ogni popolo, ogni nazione, ha il diritto di vivere in pace e in sicurezza e lo Stato, in quanto entità sovrana, è responsabile dell’applicazione delle leggi, delle libertà e dei diritti, senza discriminazione alcuna. Le minacce alla popolazione di ogni Stato, provenienti dall’esterno, debbono essere affrontate nel quadro del sistema del diritto internazionale, come sancito nella Carta e nei trattati dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU). Questa organizzazione, è stata costituita, giust’appunto, dagli stati, a seguito del disastro umano, politico, economico ed ambientale prodotto dalla seconda guerra mondiale e dal nazismo, che ha visto gli ebrei vittime più, di tutti, di violenze, di persecuzioni e del tentativo di sterminio.
Pace, sicurezza e sviluppo sono i tre obiettivi fissati nell’atto costitutivo e nei successivi trattati internazionali dell’ONU. Accordi, Trattati, Convenzioni per prevenire le guerre e regolare i conflitti con l’uso della ragione, delle consuetudini e dei diritti umani universali. L’uso delle armi, quindi, non è che l’ultima razio a disposizione degli stati, sostituite dalla politica, dal negoziato e dal sistema del diritto internazionale.
In altre parole, con questo sistema, la comunità internazionale ha messo al bando la guerra, o per lo meno, ha cercato di limitarne e di circoscriverne la pratica.
A questo quadro ed a questo orientamento, ogni governo, appartenente a uno stato membro delle Nazioni Unite, deve fare riferimento nella sua azione sovrana e di relazione con gli altri stati, in caso contrario, deve essere la comunità internazionale ad intervenire con i suoi strumenti di condanna, sanzionatori e dirimenti. Da anni, invece, per quanto riguarda Israele, ed il conflitto tra lo stato d’Israele ed i palestinesi che non hanno un loro stato, pur avendone diritto, assistiamo ad una storia differente che ha prodotto milioni di profughi, guerre a ripetizione , migliaia di morti da ambo le parti, l’instabilità di una intera regione ed il terreno fertile di fondamentalismi religiosi e del terrorismo internazionale. Israele, in quanto stato, è stato riconosciuto dall’Organizzazione delle Nazioni Unite l’11 maggio del 1949, un anno dopo la sua dichiarazione unilaterale d’indipendenza del 14 maggio del 1948. Da quel momento Israele è chiamato a rispettare le regole, le risoluzioni, i trattati dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Non può più agire in modo unilaterale, facendosi giustizia da sè. La comunità internazionale, intesa come il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ed ogni stato membro delle Nazioni Unite, ha il diritto/dovere di esigere ad Israele il rispetto delle Risoluzioni e del Diritto Internazionale e Umanitario, senza eccezione alcuna. Questo in teoria, perchènella pratica di questi anni, dal 1948 ad oggi, la comunità internazionale non è stata in grado di fare sìche Israele rispettasse norme, trattati e risoluzioni internazionali, ponendo fine al conflitto con i palestinesi. Per Israele è stata applicata, e si continua ad applicare, una deroga indeterminata che può essere spiegata, ma non giustificata, per le pene subite da un popolo, quello ebreo, perseguitato e discriminato per secoli, facendo pagare il conto ad un altro popolo, quello palestinese che dal 1948 ad oggi ricorda la naqba, la tragedia, mentre l’altro popolo festeggia l’indipendenza.
A nulla sono serviti i piani di pace e le mediazioni internazionali. I governi di Israele hanno continuato a costruire colonie, costruire check points e il Muro, screditare e demonizzare i dirigenti palestinesi, favorendo la crescita di Hamas, piuttosto che rafforzare il percorso di pacificazione ed attuare i piani di pace, da Oslo (1993) in poi. Dal settembre del 2000, assistiamo ad un piano di lenta ma sistematica occupazione del territorio palestinese e di altrettanta sistematica distruzione della società palestinese, con il chiaro obiettivo di creare condizioni insopportabili di vita, dove le alternative siano la fuga, la resa all’assimilazione, il gesto disperato o la resistenza armata. Tutte situazioni sotto controllo dal punto di vista militare e repressivo, facilmente gestibili a livello mediatico e di grande presa per l’opinione pubblica.
Una politica di non pace che ha costi altissimi anche sulla società israeliana, ma che evidentemente per i politici israeliani è un prezzo che si può pagare per la “posta in palio”.

Quanto sta accadendo in questi giorni a Gaza e quello che succederà nei prossimi mesi, se non ci saranno prese di posizione e comportamenti diversi da parte della comunitàinternazionale, è già scritto nella storia di questi ultimi anni. Non conosciamo il numero delle vittime ma sappiamo che saranno tante, soprattutto civili. Non sappiamo quali armi si useranno ma sappiamo che saranno le più letali che ogni parte potrà disporre. Non sappiamo quando terminerà, ma sappiamo che sarà un’ulteriore ostacolo alla soluzione del conflitto. Non sappiamo quanto sarà circoscritto il conflitto ma sappiamo che sarà un’ulteriore elemento di destabilizzazione per la regione e per il processo di democratizzazione nei paesi delle primavere arabe.
Quello che sappiamo è più che sufficiente per poter affermare che questa politica di non pace, del governo d’Israele, supera il limite della irresponsabilità politica ed umana. Come può pretendere, il governo israeliano, di garantire la sicurezza alla sua popolazione se continua a rifiutare di definire i propri confini, negando, di conseguenza la possibilità ai palestinesi di avere un proprio stato, perseverando nell’occupazione, metro dopo metro, del territorio palestinese e tenendo prigionieri oltre un milione e mezzo di palestinesi nell’inferno della striscia di Gaza, da più di cinque anni – Per non parlare del Muro, dell’isolamento di Gerusalemme est dai territori palestinesi, della confisca di case e della discriminazione e delle umiliazioni che quotidianamente i palestinesi debbono subire per andare a lavorare o a scuola o a farsi curare negli ospedali. Chiunque sia andato in Israele ed in Palestina, conosce benissimo queste situazioni che però, l’opinione pubblica italiana ed europea, con poche eccezioni, derubrica a prese di posizione di parte, esagerate e radicali. Con il risultato di riconoscere il ruolo di vittima, ben interpretato, in ogni occasione, dai rappresentanti del governo israeliano. Avvallandone così le loro azioni militari, le rappresaglie e ogni sorta di violazione delle convenzioni e dei trattati internazionali nei confronti dei palestinesi.

Ne sono prova le dichiarazioni di queste ultime ore, dove, ancora una volta, si chiede ai palestinesi di smetterla di tirare i razzi altrimenti Israele sarà costretto a punirli. Una visione distorta ed irresponsabile della realtà che mette tutti quanti in pericolo. Benchè, sia ben chiaro, non saranno i missili o altre armi a dare lo stato ed i propri diritti ai palestinesi, ma a maggior ragione, perchè non disinnescare ed eliminare questi movimenti con la più facile e più efficace delle soluzioni: la fine dell’occupazione e la mano tesa al tavolo del negoziato di pace. Invece, si continua ad agire in modo irresponsabile, lasciando la popolazione israeliana e palestinese, alla mercè della guerra, senza più protezione interna ed internazionale. Ed è questa la vera irresponsabilità collettiva. L’incapacità di fermare questa spirale di violenza che rende impossibile pace, sicurezza e sviluppo nell’intera regione da oltre sessant’anni.

Se il governo israeliano accettasse di dichiarare i propri confini, riconoscere il diritto dei palestinesi ad avere un proprio stato, nei confini precedenti all’occupazione del 1967, ritirarsi dai territori occupati, sedersi al tavolo del negoziato con i dirigenti palestinesi, con la determinazione di trovare le soluzioni a tutti i nodi del conflitto, ebbene, se ciò avvenisse, sarebbero i palestinesi, compresi gli abitanti di Gaza, i migliori protettori della sicurezza del popolo israeliano.

L’altra strada, quella che leggiamo dalle agenzie di stampa e vediamo nelle televisioni di tutto il mondo, con le colonne di fumo e le grida dei familiari delle vittime, potrà continuare ad ingannare l’opinione pubblica, tenere sotto assedio il popolo nemico e tenere coeso il proprio popolo per le minacce incombenti, ma non produrrà altro che lutti e nuovi conflitti.

Infine, il pensiero torna alla “posta in palio”. Qual’è la posta in palio per un governo che ha militarizzato la propria società, che chiede il sacrificio umano ai propri cittadini, che non ha più un piano di pace, che si fa giustizia da sè, che è pronto ad usare l’arma atomica e che non riconosce alcun tipo di diritto internazionale è L’unica risposta possibile, ancorchè gravissima, è data dal progetto iniziale, l’occupazione dell’intero territorio della Palestina originaria, dal Mediterraneo al fiume Giordano, di cui non se ne vuole parlare ma che è lì, sotto gli occhi di tutti. E, nonostante ciò, i governi europei e l’Unione Europea, l’America, la stessa ONU, continuano a prender tempo, diventando così complici delle violazioni e dei morti di entrambe i popoli, perdendo quella credibilità di cui avrebbe, invece, assoluto bisogno la comunità internazionale per fermare un nuovo massacro.

Sergio Bassoli
Dipartimento Politiche Globali CGIL