Nessun bavaglio: l’odio non è opinione. Presentata la ricerca di COSPE sull’hate speech on line

hate speech

Presentata a Roma la ricerc“L’odio non è un’opinione. Hate speech, giornalismo e migrazioni”. Un’iniziativa  di COSPE, la Federazione Nazionale della Stampa, Articolo 21 e Carta di Roma in collaborazione con www.illuminareleperiferie.it.

La ricerca realizzata da COSPE nell’ambito del progetto europeo (Italia, Belgio, Germania e Repubblica Ceca i paesi coinvolti) contro il razzismo e la discriminazione su web, “BRIKCS” – Building Respect on the Internet by Combating hate Speech”, ha approfondito questo fenomeno tramite l’analisi di casi studio ed interviste a testate e testimoni privilegiati.

A presentarla Alessia Giannoni ( COSPE), Giuseppe Giulietti (Presidente FNSI), Pietro Suber  (Associazione Carta di Roma), ed Elisa Marincola – Articolo 21 / Illuminare le periferie del mondo.

Tutti i relatori hanno sottolineato la necessità di una nuova prospettiva con cui guardare al giornalismo al tempo del web e quella di una regolamentazione dei commenti on line da non confondere con bavagli e censura: ” Contrastare i discorsi d’odio non c’entra con la libertà di espressione – ha detto Giuseppe Giulietti- le redazioni hanno il dovere di  fare azioni serie e prendere misure contro l’hate speech. Che cambia e influenza la percezione dei lettori”. 

Un dovere professionale anche per Pietro Suber della Carta di Roma: ” Correttezza e rispetto sono alla base della deontologia del lavoro giornalistico eppure dobbiamo ricordarlo sempre. E una ricerca come questa dovrebbe circolare in tutte le redazioni”.

“E nelle scuole”  aggiunge Elisa Marincola che ricorda l’importanza dell’educazione all’informazione e all’approfondimento:” L’odio nasce spesso dall’ignoranza o dall’omissione, dal non leggere o non poter leggere davvero le storie e le realtà  che ci circondano. Per questo è importante il lavoro di COSPE  e anche quello della rete di giornalisti che lavorano a “illuminare le periferie”. Dove le periferie sono tutti quegli angoli di mondo di cui non si parla mai”.

La ricerca che è durata 6 mesi, ha coinvolto 4 direttori e caporedattori (Fan Page, Il Tirreno, l’Espresso, Il Post); 3 staff incaricati di community management (Il Fatto Quotidiano, Repubblica, La Stampa), 3 esperti di social media strategy, 3 blogger di testate nazionali, 2 esponenti di associazioni attive nel settore media e immigrazione (ANSI e Carta di Roma), 2 organismi pubblici di tutela (OSCAD – Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori  e UNAR – Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali).

Proprio l’UNAR nel 2014 ha registrato 347 casi di espressioni razziste sui social, di cui 185 su Facebook e le altre su Twitter e Youtube. A queste se ne aggiungono altre 326 nei link che le rilanciano per un totale di 700 episodi di intolleranza, con un trend in crescita per il 2015, anno in cui i giornali europei hanno dovuto affrontare lo scenario di una delle più grandi crisi umanitarie senza riuscire, in gran parte, a restituire un’immagine corretta del fenomeno migratorio a livello globale e nazionale. E’ in contesti come questi che si moltiplicano le espressioni di incitamento all’odio razziale nei confronti di rifugiati, migranti e minoranze: sono i forum dei giornali online, i commenti a margine degli articoli, le pagine Facebook delle testate nazionali e locali, i luoghi virtuali in cui dilagano i discorsi d’odio che prendono di mira i rifugiati e i cittadini di origine straniera e purtroppo si tratta di un fenomeno difficilmente monitorabile e controllabile.

Più in generale, dunque, la ricerca mette in risalto le problematiche di gestione delle proprie community e del lavoro giornalistico ai tempi del web: dalla libertà di espressione alla necessità di regolamentazione, dal ruolo dei giornalisti a quello dei social media manager, dall’obiettivo di informare a quello di coinvolgere e le soluzioni diverse da parte delle redazioni, in una fase di sperimentazione contraddistinta da una difficoltà di adattamento alla dimensione digitale. 

Per questo, alla ricerca seguiranno in ogni paese altre iniziative per combattere il fenomeno: un decalogo per social media manager, un percorso formativo per insegnanti, toolkit multimediale, e un evento finale di sensibilizzazione.

Inoltre, con lo slogan “Silence hate – Changing words changes the world” e l’hashtag #silencehate prende il via il 21 marzo, la campagna europea contro l’hate speech on line.  L’obiettivo della campagna web è proprio porre l’attenzione sulla necessità di impedire la diffusione dell’odio e promuovere un uso consapevole della rete: uno sforzo collettivo, che veda impegnati le testate, i lettori, i proprietari dei social network e che riparta da quegli elementi costitutivi della Rete stessa, la libertà e la partecipazione.  

Scarica la ricerca_odiononèopinione

 

 

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