Non è un paese per donne

La storia e le speranze di una giovane donne afghana e di sua madre. 

L’Afghanistan, ormai dilaniato da più di trent’anni di conflitti, risulta uno dei paesi più pericolosi al mondo per le donne, che vivono ai margini della società: per loro l’accesso all’istruzione (l’analfabetismo femminile è dell’80%), al mercato del lavoro e alla rappresentanza politica è un obiettivo lontano dall’essere raggiunto.

Ne sa qualcosa Madina (nome di fantasia), giovane afghana ormai residente in Italia da una decina d’anni, che non può più tornare nel suo paese a causa di una “sentenza” di matrimonio forzato.

La sua storia ha avuto inizio prima della partenza per l’Italia, quando alcuni parenti di Madina sono entrati in conflitto con un altro gruppo familiare a causa di alcune dispute per la spartizione dei terreni. Col passare del tempo le violenze e le vendette sono man mano degenerate, divenendo una vera e propria faida tra famiglie. Per questo motivo la risoluzione del conflitto è stata affidata al jirga, una riunione di capi villaggio e anziani. La jirga ha decretato che la pacificazione tra le famiglie sarebbe avvenuta tramite un matrimonio riparatore tra Madina e un uomo anziano sconosciuto alla giovane, già sposato e padre di sette figli.

 “Di solito fanno sposare una ragazza per la vendetta” ha spiegato Madina, sottolineando che il suo ruolo di seconda moglie equivarrebbe a quello della serva: in Afghanistan le donne che sono costrette a sposarsi per decisione di un jirga vengono continuamente umiliate dalla famiglia in cui entrano e trattate come schiave, ne diventano una proprietà: sarebbe quindi diventata un oggetto a disposizione del marito e della sua prima moglie.

Nessuno è riuscito a contrastare questo verdetto: quest’assemblea ha un valore sociale nel paese, tanto che questa  decisione è stata successivamente ratificata dalle istituzioni governative afghane, rendendo così legale la sentenza.

I genitori di Madina, rifiutando l’idea che la figlia potesse essere schiavizzata, si sono coraggiosamente opposti a questo matrimonio-prigione.  Il padre di Madina ha tentato di reagire interpellando anche le autorità che in risposta lo hanno intimato a far tornare la figlia per portare a termine la cerimonia.

Al rifiuto dei parenti di farla tornare in Afghanistan si sono susseguite continue minacce da parte della famiglia “rivale” e da parte dei talebani. Quest’ultimi, nonostante la guerra sia iniziata nel 2001 non hanno mai abbandonato il paese, e fungono da vero e proprio braccio armato del jirga.  Queste persecuzioni, perpetuate anche tramite l’uso della violenza, hanno costretto i parenti di Madina a sopravvivere nella latitanza e nella paura: costretti a vivere scappando di villaggio in villaggio, temendo per la loro sicurezza.

Vista la situazione Madina ha deciso di non tornare più in Afghanistan e, nel 2013 ha richiesto ed ottenuto lo status di rifugiata sur place, nonostante potesse rimanere tranquillamente in Italia con il suo permesso di soggiorno precedente.  

Madina però adesso è preoccupata non tanto per la propria incolumità quanto per quella della madre: la donna sta affrontando questa situazione di crisi completamente sola, il padre è infatti scomparso ed il nonno è morto recentemente.  La vita di una donna sola in Afghanistan, senza una presenza maschile di riferimento, è estremamente difficile e anche il minimo spostamento fuori da casa diventa un’impresa.

Spinta dalla preoccupazione per le condizioni di vita della madre, Madina ha fatto richiesta di ricongiungimento familiare, per permetterle di trovare un rifugio in Italia.

Nel contempo, COSPE ha attivato la rete di difensore dei diritti umani e le associazioni di donne che gestiscono Case protette per le donne, per seguire il caso.

La prefettura di Perugia ha concesso il nullaosta, senza bisogno di mostrare documenti particolari poiché per i ricongiungimenti di rifugiati non serve dimostrare di avere un lavoro ed un alloggio. L’ambasciata italiana a Kabul invece non ha accolto la domanda di visto, perché sembra che manchino i documenti che dimostrano l’indigenza della madre e il legame di parentela con Madina, ma allo stato attuale non sono riusciti a provare che la madre sia a carico della figlia, perché i soldi che Madina ha passato durante questi anni alla madre (indispensabili per la sua sopravvivenza) sono stati inviati per lo più tramite amici e persone di fiducia e raramente tramite Western Union, che ha pochi sportelli periferici in Afghanistan.

Arrivare in Ambasciata a Kabul è stato, per la madre di Madina, già una sfida. Gli spostamenti in Afghanistan per una donna sola sono estremamente pericolosi.  E ancora non si hanno risposte.

Madina è però ancora fortemente convinta di lottare per riavere con sé la madre, una donna forte che l’ha cresciuta, le è sempre stata a fianco nei momenti di difficoltà.  

Una minaccia che conoscono bene le associazioni con cui Cospe lavora, come l’Humanitarian Assistance for the Women and Children of Afghanistan (HAWCA) che quotidianamente assiste legalmente e fornisce protezione in Centri antiviolenza a Kabul ed Herat a donne e bambine afghane.

Scopri i nostri progetti in Afghanistan e sostieni il coraggio delle donne 

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