Se con il cibo si fa poilitica

Per combattere la fame i contadini africani vogliono produrre fuori da logiche di mercato Cristina Puppo

Da sempre la cooperazione internazionale si è occupata della “fame nel mondo”, soprattutto a partire dagli anni 70, periodo in cui molti Paesi, in particolare quelli dell’Africa sub sahariana, sono stati colpiti da gravi carestie. Per far fronte a queste crisi, nel corso degli anni, gli organismi internazionali hanno messo a punto politiche che miravano a risolvere il problema in maniera definitiva.

I risultati non sono stati finora incoraggianti: nel 1996 si stimavano circa 840 milioni di affamati nel mondo e l’ultimo rapporto Fao parla di circa un miliardo di persone che soffrono di fame cronica. Ma di cosa parliamo quando parliamo di politiche e di soluzioni per far fronte alla “fame”? Per anni gli interventi si sono concentrati sulla “Sicurezza Alimentare” (la cui definizione viene ufficializzata durante World Food Summit Fao del 1996), concetto con cui si intende l’accesso sia fisico sia economico al cibo, per rispondere ai bisogni della dieta delle popolazioni, senza nessun ragionamento sull’origine e la qualità del cibo e dei prodotti agricoli, tantomeno sul sistema di produzione. Questo ha portato a conseguenze devastanti: si è assistito alla distruzione dei sistemi produttivi, alla distorsione dei mercati locali, allo smantellamento delle riserve alimentari, al disfacimento dei modelli colturali ecosostenibili, alla spoliazione delle risorse naturali. Piccoli contadini dediti a un’agricoltura famigliare hanno dovuto cambiare il loro sistema di produzione e insieme anche il loro modo di vita, con una perdita di biodiversità, anche in termini culturali e dei saperi tradizionali, capaci di adattarsi con più facilità ai cambiamenti climatici. Molti gli esempi: l’introduzione nei mercati locali di riso d’importazione a prezzi inferiori(dumping) a quello locale (perchè proveniente da un’agricoltura sovvenzionata), la scomparsa del riso “kobe” coltivato da migliaia di persone lungo le sponde del fiume Niger, l’introduzione dell’allevamento di polli di razze europee in paesi come Benin, Togo e Ghana, o la coltivazione dei fagiolini in Burkina Faso. Questi processi, causa dell’ulteriore marginalizzazione o esclusione di contadini, piccoli e medi produttori di cibo, hanno determinato l’attivazione di una mobilitazione collettiva transnazionale, che ha finalmente portato a inquadrare la questionedella Sicurezza Alimentare in termini alternativi.

Si arriva così teorizzare la “sovranità”: un concetto che intende dare una vera e propria connotazione politica alla discussione intorno al cibo. L’innovazione risiede innanzi tutto in una chiara critica al sistema di produzione agricolo di tipo industrializzato; e poi nella de-mercificazione del cibo e infine nella ridefinizione della sovranità e del diritto al cibo nella prospettiva delle comunità locali, passando cosi da un bisogno individuale a un diritto collettivo. Anche questo concetto debutta nel 1996, durante il “Forum della Società Civile” a Roma organizzato parallelamente a quello della Fao con organizzazioni e movimenti contadini di tutto il mondo, ma fa più fatica ad affermarsi, proprio per la sua portata politica e di revisione dei modelli produttivi, sociali e economici. Negli anni la definizione viene perfezionata fino ad arrivare alla dichiarazione del “Forum di Ny?l?ni” (Mali 2007), con la partecipazione di 500 delegati da 80 paesi del mondo.

I sei principi della Sovranità alimentare

1. Focalizzarsi sul Cibo per le Persone
2. Valorizzare i produttori di cibo
3. Localizzare i sistemi alimentari
4. Ricondurre il controllo al locale
5. Costruire conoscenza e competenza
6. Lavorare con la natura

Da Babel di Ottobre 2011