Tunisia, attentato di Sousse: 40 morti e “12 milioni di feriti”

Dopo qualche giorno di silenzio, pieno di dolore e incredulità, Debora Del Pistoia, la nostra reponsabile in Tunisia ci parla dell’attentato di Sousse e di quel resta di un Paese: dalla crisi del settore turistico al restringimento ulteriore delle libertà personali e l’attacco sempre più esplicito alla società civile da parte del Governo.

Sousse, Tunisia. 29 giugno 2015. L’attentato più sanguinario della storia del paese, a soli tre mesi dall’attacco del Bardo, in un venerdì di pieno Ramadan e pensato per colpire una zona turistica, visibile, esposta. Un atto eclatante. Questa volta in maniera piuttosto esplicita ad essere “target” sono il turismo, l’economia e lo Stato. Le vittime ad oggi confermate sono 40, un bilancio che rischia di aggravarsi considerando che i feriti sono 36, molti dei quali in gravi condizioni. “Altri 12 milioni di feriti”, recitano i social media: ad essere ferito è infatti tutto il popolo tunisino ammutolito. E’ infatti un atto che mette a nudo un paese lacerato da problemi identitari, economici, sociali e di sicurezza, senza dimenticare le responsabilità politiche.

 Dal maggio 2011, gli scontri tra forze dell’ordine e gruppi armati e gli attentati hanno visto soccombere 203 persone (97 agenti di sicurezza, 64 civili, 76 individui armati) e oltre a circa 300 feriti. Un fenomeno che si è aggravato a partire dalla fine del 2012 e inizio 2013 e, non sorprendentemente, proprio in parallelo allo svilupparsi di un clima di tensione politica, sociale ed economica nel paese, in un concatenarsi di eventi che hanno generato un circolo vizioso.

 

Svolta securitaria

 Mentre il dibattito sulla crisi del turismo, settore motore del paese, si accende e diventa il fulcro delle discussioni anche dei responsabili governativi, qualcuno chiede al governo in carica e al Ministero degli Interni le dimissioni immediate e un’assunzione di responsabilità per una situazione sempre più fuori controllo e di rischio prevedibile. Responsabilità che pesano come macigni nella gestione della deriva della sicurezza nel paese, disseminate di incompetenza e apatia, promesse inattese di riforme dell’apparato del Ministero degli Interni e misure speciali già annunciate dai vari governi succedutisi dopo la rivoluzione e ribadite dopo i terribili fatti del Bardo.

Mentre ancora le dinamiche e i dettagli del brutale attacco del 26 giugno sono in corso di verifica, è importante soffermarsi sulla risposta politica, che recita un copione già noto e sceglie la svolta securitaria strumentale e indirizzata verso ben altri target, tra cui la società civile. Come già sperimentato dopo l’attacco del Bardo e la proposta di una nuova legge di protezione delle forze dell’ordine, definita incostituzionale dalle maggiori organizzazioni di diritti umani tunisine e internazionali, anche oggi la risposta al terrorismo è focalizzata solo sulla sicurezza.

 La “responsabilità” della società civile e nuove misure repressive e di controllo

 I primi commenti del Presidente della Repubblica puntano infatti il dito sui movimenti sociali che in questi ultimi mesi hanno animato il paese, oltre agli scioperi e alle manifestazioni di malcontento presenti in tutte le regioni della Tunisia, definite da Essebsi “campagne denigranti e che indeboliscono lo Stato tunisino e la sicurezza, in un momento invece in cui si invoca l’unità nazionale”. Lo Stato risponde quindi con la repressione. E c’è da chiedersi quindi se siano davvero i movimenti sociali o lo Stato a minacciare la sicurezza del paese. Sarà il Primo Ministro Essid in una conferenza notturna invece ad annunciare le misure approvate dal governo per rispondere a quanto accaduto il 26 giugno. Tutte le decisioni prese nel vertice d’urgenza della Kasbah preannunciano un giro di vite, già propagandato dopo l’attacco del Bardo, ma con una serie di punti precisi e che per la prima volta espongono direttamente anche le organizzazioni della società civile. Il governo prevede infatti una revisione integrale della legge relativa alle associazioni, promulgata nell’ottobre del 2011 e che ha permesso lo svilupparsi del panorama associativo odierno.

Questa revisione verterebbe in particolare sugli aspetti finanziari, perché da quanto dichiarato dallo stesso Essid spesso i finanziamenti dei gruppi terroristi sono veicolati attraverso le organizzazioni, ma pone chiaramente dubbi di arbitrarietà nell’interpretazione che fanno tremare la società civile. Gli statuti di associazioni e partiti politici che non rispecchiano lo spirito della Costituzione tunisina verranno inoltre decretati fuori legge, mettendo a rischio seriamente formazioni politiche come Hezb Tahrir, partito che mira a instaurare uno Stato islamico, ma che non ha mai praticato la violenza dalla sua creazione negli anni ’80 e che è stato legalizzato nel 2012 dal governo. Vietare questi partiti significherebbe spingere i propri aderenti alla clandestinità e gettarli in un vortice di radicalizzazione ancora maggiore, rischiando di avere effetti controproducenti e di amplificare il problema, in una logica simile a quello che succede in Egitto con l’interdizione dei Fratelli Musulmani. A questo si somma una grave misura provvisoria e emergenziale che restringe la libertà di circolazione, già peraltro estremamente limitata, di tunisine e tunisini minori di 35 anni, a cui è stato vietato di lasciare il paese in caso di destinazioni sensibili (Egitto, Marocco, Turchia) o a cui è stata richiesta autorizzazione parentale, il tutto in maniera arbitraria e in assenza di legislazione specifica.

Assenza di analisi politiche serie 

Nessun tentativo, anche approssimativo, di analisi dei legami che esistono tra l’islamizzazione del radicalismo della società e gli abusi perpetuati dalla polizia, la repressione e le ingiustizie a cui questo governo neoeletto non è ancora stato capace di far fronte né ha dimostrato la volontà politica di risolvere, ai diritti inattesi e alla dignità violata da parte delle istituzioni. Nessuna volontà di approfondire le ragioni per cui un numero elevato di giovani si stia lanciando verso l’alternativa più radicale, ma pur sempre l’unica, in un’epoca caratterizzata da un processo rivoluzionario fragile e di ritorno dei vecchi regimi. Questo panorama ci ricorda che mettere in sicurezza un paese non si limita al promuovere una campagna pubblicitaria e propagandistica anti-terrorista, ma richiede un’osservazione seria che parta proprio da dove queste contraddizioni emergono. A partire dalla capacità e volontà politica di portare a termine processi di giustizia che facciano emergere le responsabilità politiche sin dagli abusi compiuti durante la rivoluzione. Che permettano di contrastare la piaga del clientelismo e della corruzione, quest’ultima di per sé responsabile della presenza di armi nel paese. Che mirino a giudicare le cellule impazzite all’interno dei movimenti radicali. Nessun processo giudiziario si è infatti realizzato dall’avvio dell’escalation del terrorismo nel 2012, nessuna misura seria è stata presa per supportare le numerose famiglie che hanno osservato le partenze dei propri figli verso la Siria nonostante avessero tentato invano di allertare e richiedere l’appoggio dello Stato e delle forze dell’ordine. Quei figli che recentemente si sono diretti verso il miraggio di giustizia sociale proposto dallo Stato Islamico, ma che spesso curiosamente militavano nelle file dei rivoluzionari nel 2011 per rivendicare la karama (dignità) e il cambiamento, o che in altri casi erano stati attratti in passato dalla harqa, la traversata via mare in direzione dell’Europa, con la stessa voglia di riscatto, libertà e diritti. Forse è stato anche il caso di Saif, l’attentatore di Soussa, ma non lo sapremo mai, visto che anche questa volta non potremo ascoltarlo e processarlo perché ucciso dalle forze dell’ordine a seguito dell’attacco e esibito come “bottino di guerra” su tutti i media tunisini. Aprire un dialogo sociale e una riconciliazione nazionale, anche con le correnti islamiste moderate, in quanto parte integrante di questa società, è sempre più urgente per superare il conflitto identitario e la spirale della violenza.

 Se vince la retorica sicurezza vs terrore

 In questo quadro, il popolo tunisino è frammentato e in larga misura in stato di incoscienza di fronte a quanto accaduto. Molti ricordano con nostalgia l’epoca della dittatura benalista, dimenticando che le grandi debolezze di oggi sono frutto anche di quanto compiuto dalle élite clientelari collegate al precedente regime e che tuttora sono al potere. E sono pronti a sacrificare le libertà in nome di una sicurezza promessa e sbandierata al ritmo di una retorica basata sulla “guerra al terrorismo”, che giustifica tutti gli abusi in materia di diritti fondamentali e libertà iscritte nella Costituzione. Una crociata contro le istituzioni democratiche che rischia di derivare velocemente verso un ritorno alle pratiche di un regime che il popolo ha condannato nel 2011. Se la giovane e già di per sé fragile democrazia tunisina cede di fronte alla guerra al terrore, il terrorismo avrà già ottenuto uno dei suoi obbiettivi. “Ogni tipo di violenza poliziesca è un supporto al terrorismo”, scrivono alcuni blogger, e al conflitto sociale, aggiungo.

 

  

Sostenere la società civile tunisina è una priorità!

Da domani nuovi accordi di collaborazione e cooperazione inonderanno la Tunisia, auspichiamo che si tratti di politiche coerenti e che non mirino solo a rafforzare i dispositivi di sicurezza, ma al contrario propongano un accompagnamento del paese nella dinamica della risoluzione dei conflitti, del proseguimento del processo di transizione democratica e di costruzione dello Stato di diritto, di promozione di alternative economiche sostenibili. L’appoggio alla società civile tunisina, attaccata al cuore, è oggi più che mai una priorità, inquadrato in politiche che non fomentino l’immaginario di un terrorismo legato ai flussi migratori e di un paese in preda all’islamismo radicale. Se la spinta della violenza ha messo ieri a tacere le rivendicazioni delle piazze tunisine, solo con politiche di solidarietà coerenti tra loro questa forza potrà essere ri-alimentata. Se l’Europa non ci sta, la società civile delle due rive del Mediterraneo insisterà comunque nel costruire ponti e a sognare un futuro di libertà e pace in tutto il Mediterraneo e “grida” mai più frontiera.

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