Le vite (non) preziose delle donne afghane

COSPE in Afghanistan - Vite Preziose

Grazie a Repubblica e ad Adriano Sofri per aver voluto e saputo raccontare quella condizione di sofferenza e di negazione dei diritti che solo apparentemente è lontana ma che ci deve riguardare tutti”. La lettera di Fabio Laurenzi, presidente COSPE, ad Adriano Sofri, in risposta all’articolo di Repubblica del 5 novembre. 

Le lapidazioni sono frequenti in Afghanistan, le violenze contro le donne sono frequenti in Afghanistan, la violazione dei loro diritti anche. Ha ragione Sofri. Dobbiamo saper inquadrare la situazione sotto il giusto punto di vista, che non è solo quello della barbarie, del fondamentalismo o del paese lontano con usi tribali che ci fanno orrore. L’Afghanistan e il rispetto dei diritti delle donne in questo paese ci riguardano da vicino: da 14 anni in Afghanistan si combatte una guerra contro i talebani, in nome dei diritti civili e delle donne prima di tutto, migliaia di soldati internazionali (i contingenti di USA e Italia hanno appena rinnovato il loro impegno nel paese per i prossimi due anni) lavorano a stretto contatto con la polizia afgana e con le istituzioni. Quelle stesse istituzioni che proteggono gli orrori delle milizie e vogliono cacciare Sima Joyenda, una di sole due governatrici nelle 34 provincie del paese, cui questa lapidazione ha mandato un messaggio di morte.
Dopo 14 anni la polizia si macchia ancora dei crimini più abietti, i talebani non sono scomparsi e anzi, ultimamente, hanno riportato i loro maggior successo militare nella provincia di Kunduz tristemente nota per il bombardamento dell’ospedale di MSF, le istituzioni sono ancora piene dei “Signori della guerra” e, soprattutto, i crimini contro le donne non sono diminuiti. 
Tutti crimini che rimarranno impuniti perché il sistema di potere rimane maschile e maschilista– ha detto Najia presidentessa di HAWCA (Humanitarian Assistance for the Women and Children of Afghanistan) durante la sua recente visita in Italia: “Basta ricordare l’omicidio di Farkunda qualche mese fa a Kabul – ha continuato- dopo il clamore mediatico, dei 20 accusati solo 4 sono stati ritenuti colpevoli e tutti gli altri, soprattutto i poliziotti, tutti assolti. Basta parlare di “questione e differenza culturale” nel tollerare i più orrendi delitti”. Sono centinaia quelle donne che annualmente si rivolgono ad associazioni come HAWCA  e OPACW (Organization of Promoting Afghan Women’s Capabilities), che vengono ospitate nelle varie case protette della città o che si rivolgono ai centri donne di Kabul o Herat per tentare di ricominciare e rimettere insieme alcuni pezzi della propria vita.  “Vite preziosecome i nome del progetto che abbiamo costruito con queste associazioni e che insieme alla creazione di una rete di difensori dei diritti umani danno il senso del nostro impegno in Afghanistan. Perché quello che si sa meno è che in Afghanistan esiste una società civile attiva, esistono associazioni che difendono davvero le donne.  Ed è a loro che dovrebbero andare gran parte dei fondi che arrivano dagli aiuti internazionali: “Mentre alle associazioni arrivano solo gli spiccioli -chiosa Najia –  il grosso va a alimentare la corruzione delle istituzioni e a pagare l’occupazione militare, che questi problemi non li risolve. I diritti delle donne –conclude- non possono essere strumentalizzati come pretesto per una guerra”. Se vogliamo davvero agire e difendere le tante Rokhhana, Farkunda dalla “questione maschile” di cui parla Adriano Sofri secondo noi bisogna partire da qui”.

Fabio Laurenzi, presidente di COSPE

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